La comunicazione va in vacanza?

Se parti per le vacanze non lasciare la tua comunicazione efficace a casa, ti può servire, e puoi addirittura trarne giovamento!

Le ferie infatti sono un’ottima occasione per testare le nostre capacità comunicative in un contesto diverso da quello solito dell’ufficio o della famiglia. La vacanza ha il pregio (o il difetto?) di sconvolgere le nostre abitudini, di farci uscire dalla nostra area di comfort e di mettere alla prova le nostre competenze linguistiche e comunicative.

Prova a pensare: in ferie facciamo cose diverse dalle solite, come mangiare in locali nuovi, guidare per strade sconosciute, visitare località turistiche. Probabilmente passiamo più tempo con persone con cui normalmente ne passiamo poco (amici, partner, figli, genitori), ci relazioniamo con persone che abitano in altre città, sono di altre culture e/o parlano altre lingue.

Spesso e volentieri in vacanza viaggiamo passando per aeroporti e stazioni che normalmente non siamo abituati a frequentare, ci tuffiamo nel caos di nuovi luoghi dotati di armi, bagagli e delle nostre capacità personali. Tra queste ultime spiccano le nostre competenze comunicative: oltre a quelle meramente tecniche riguardanti le lingue straniere non possiamo dimenticare quelle relazionali.

Facciamo attenzione ai mitici “misunderstanding”, nostranamente “disguidi”. Ci attendono dietro ogni angolo, quando non prestiamo abbastanza attenzione e diamo per scontato di avere capito o che l’altro ci abbia capito. Può succedere facilmente nella nostra vita quotidiana, figuriamoci in vacanza quando esploriamo nuove terre alla ricerca di svago!

Senza bisogno di girare il Globo, la nostra penisola è ricca di dialetti ed espressioni colorite. Pensiamo alla cucina: ogni pochi chilometri cambiano usanze e tradizioni, parole diverse per indicare la stessa pietanza o la stessa parola per indicare cibi diversi.

Recentemente ho condotto un corso in Emilia-Romagna, e ho chiesto ai corsisti di dirmi il termine che ognuno usa per indicare la pasta ripiena. A titolo non esaustivo sono emerse le parole: agnoletti, agnolotti, tortelli, tortellini, tortelloni, cappelletti, cappellacci e cappelli del prete.

Altro esempio. Se ti rechi in un ristorante a Padula, comune  a sud di Salerno che vanta la Certosa più grande d’Italia, e chiedi gli “arrosti” non ti porteranno della carne di manzo cotta al forno  (come io mi aspetterei) ma delle fettine di maiale grigliate, quelle che io chiamerei “braciole”. E se chiedi le “braciole” ti porteranno delle sottili striscioline di carne di maiale arrotolate intorno ad una frittata e a della verdura cotta, che io chiamerei “involtini”. Sono esempi banali, ma servono a darti un’idea di quanto siano variegati non solo la cucina ma anche il vocabolario italiano.

Mi piace poi osservare le differenti strategie di gestione dell’incomprensione. Come reagisci se al ristorante se chiedi una pietanza e te ne portano un’altra? Come si comporta il cameriere se si sente rinfacciare di avere servito il piatto sbagliato? Ovviamente ognuna delle due parti è convinta di avere ragione, dato che si è comportata secondo la propria abitudine, ma la differenza di origine culturale è un fattore che ha contribuito all’incomprensione.

La forbice delle reazioni va da una umile ammissione di colpa ad un’aggressiva accusa diretta, ma nel mezzo ci sono numerose alternative che possono soddisfare entrambe le parti senza che nessuno perda la faccia. Mi ricordo che una volta in un ristorante con degli amici notammo che nel conto c’era una piccola incongruenza, dovuta ad un errore sul menù. Fummo discreti e cortesi nel farlo notare al titolare, e costui invece di irritarsi o scocciarsi come temevamo, ci ringraziò per la correzione e ci offrì il digestivo. Inutile dire che il suo atteggiamento ci conquistò e siamo tornati volentieri  nel suo locale.

Il comportamento contrario lo tenne una commessa in un negozio, dove avevo comprato un articolo rivelatosi poi sbagliato. Tornai nel negozio, avvicinai la commessa che mi aveva aiutato a sceglierlo e, sempre con cortesia e discrezione, le feci notare il problema. Lei, che durante la vendita era stata paziente e disponibile, cambiò completamente atteggiamento, mi accusò di essermi spiegato male in quanto inesperto del prodotto.

Come reagiresti se ti succedesse? Io personalmente ho mantenuto (con fatica) un comportamento educato e, anche se mi sarei potuto accontentare di un cambio di merce, pretesi la restituzione del prezzo pagato. Secondo te tornerò a fare acquisti in quell’esercizio?

Dunque… se crediamo che prevenire sia meglio che curare, come comportarsi di conseguenza?

Nella mia piccola esperienza al di qua e al di la della “barricata” (il bancone di vendita) ho potuto sperimentare con successo due strategie.

  • La prima è la ricapitolazione passiva: ripeto quello che ho capito del messaggio del cliente e chiedo un feedback di conferma (il mio socio la chiama anche “domanda di verifica”). Se non ho capito preferisco ammetterlo subito piuttosto che dovermi giustificare poi.
  • La seconda è la ricapitolazione attiva: chiedo espressamente al cliente di riassumere i suoi desideri, in modo da essere sicuro di avere capito, e dò un feedback di conferma (o smentita, se non ho capito).

Sono curioso di conoscere le tue strategie, quindi se ne conosci e ne usi, o se hai vissuto esperienze interessanti di questo tipo, postale nei commenti!

Grazie e buona vacanza!

Giovanni Petrucci

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