Nessuno mi può giudicare?

“La tendenza a giudicare gli altri è la più grande barriera alla comunicazione e alla comprensione”.

Carl Rogers

 

A volte nei gruppi di lavoro e nelle riunioni tendiamo a chiuderci e a non prestare la nostra collaborazione ai nostri colleghi perché li giudichiamo non corretti come noi, e quindi non meritevoli del nostro aiuto. Ma quando si è in una squadra, che sia sportiva o lavorativa, ci possiamo astenere dal lavorare con qualcuno degli altri? E se lo facessimo, vincerebbe la nostra moralità o il nostro egoismo?

 

Sospensione del giudizio.

Per lo studioso di creatività Edward De Bono, una delle regole da usare perché un brainstorming sia produttivo per risolvere problemi o per creare, è quello di produrre idee senza giudicarle e inibirle. Dovremmo sospendere il giudizio, perché lo scopo iniziale è produrre più idee possibili.

Senza contare che le critiche ad un’idea possono inibire qualche partecipante. Solo dopo aver prodotto tante idee si passa alla fase in cui si valutano e scelgono quelle più attuabili, gratificando tutti i partecipanti.

Se rifiutiamo o ostacoliamo sistematicamente le idee di un dato collega perché ci è antipatico, ci dimentichiamo innanzitutto che nessun tribunale ci ha investito dell’onere di fare il giudice, e in secondo luogo che rischiamo di privare la squadra di contributi utili.

Spesso inoltre è difficile distinguere i casi in cui abbiamo giudicato un’idea obiettivamente come inadeguata dai casi in cui l’abbiamo valutata male influenzati dalla nostra antipatia verso la persona che l’ha proposta.

Se siamo in posizione di leader è importante, per il bene del gruppo, non farci influenzare dalle nostre simpatie e antipatie nel giudizio sulle idee. Anche una persona antipatica può avere buone idee, e si dice che molti geni del passato sono stati ritenuti odiosi dai colleghi e collaboratori.

 

La focalizzazione positiva.

Un membro prezioso di un team è quello che sa dare il buon esempio, non quello che spinge per far valere la propria opinione ignorando quella altrui. E’ quello che stimola gli altri a dare il meglio.

Ma come è possibile che questo accada se ostacoliamo un membro del gruppo solo perché non lo riteniamo all’altezza?

Un buon membro di una squadra (e a maggior ragione un buon capitano) sa valorizzare gli elementi positivi di ognuno degli altri giocatori, in modo che ognuno contribuisca con i suoi punti forti. Se qualcuno ci sta antipatico non possiamo “buttare via tutto il pacchetto”. Quindi tanto vale sospendere i giudizi morali verso i colleghi nei momenti in cui si deve lavorare e produrre, e tenere conto il più possibile dei loro pregi più che dei difetti. A tal proposito, il saggista e filosofo Emil Cioran ha detto: “Non possiamo rinunciare ai difetti degli uomini senza rinunciare, nel contempo, alle loro virtù”.

 

Lo scopo sovraordinato comune a tutti.

Quando lavoriamo in un’azienda, in un gruppo, in una squadra, non possiamo pensare di avere degli scopi separati da quelli degli altri. Anche se i nostri modi di vedere le cose possono essere giustamente e utilmente diversi, non possiamo dimenticare che lavoriamo tutti per uno scopo comune. Molto spesso i litigi si dirimono realizzando questa pratica realtà. Non si possono combattere battaglie di idee personali con la logica della ragione e del torto. E’ più utile accettare incondizionatamente l’idea diversa dell’altro e cercare il modo di integrarla un po’ con la nostra per i fini della squadra, invece di tenerle separate e in competizione in modo sterile. Uno studioso della storia delle idee, Steven Johnson, sostiene che sono proprio gli ambienti e le piattaforme condivise ad accrescere la creatività e la redditività delle persone che vi operano. Quindi varrebbe la pena domandarsi se ostacolare la collaborazione con gli ‘antipatici’ faccia più bene o più male ai risultati complessivi del gruppo.

Le scorrettezze sono sempre quelle degli altri?

Il giudizio sulle nostre e sulle altrui azioni quotidiane

 

“Le cattive azioni degli uomini vivono nel bronzo, mentre quelle virtuose le scriviamo sull’acqua”

William Shakespeare

 

Nell’avere a che fare con gli altri, siamo imparziali osservatori, oppure tendiamo a classificarli e a spiegare le loro azioni con una certa tendenza? Siamo capaci nelle interazioni di riconoscere le nostre responsabilità e le attenuanti dell’altro, o tendiamo a fare il contrario?

La differenza tra attore e osservatore nell’attribuzione di caratteristiche.

Quando osserviamo e valutiamo i comportamenti delle persone, di solito tendiamo ad attribuirli alle loro qualità permanenti piuttosto che a fattori che riguardano la situazione. Lo psicologo sociale Luciano Arcuri ha fornito l’esempio di quando guidiamo l’automobile. Le scorrettezze degli altri ci sembrano stabili, mentre le nostre sarebbero situazionali.

Viene da pensare che vi sarà la tendenza a giudicare più negativamente l’attore osservato che noi stessi, che in quella particolare situazione possiamo avere una giustificazione contestuale. E’ facile allora avere una scusa per sé (oggi sono molto stanco), e un’etichetta per attribuire una caratteristica stabile agli altri (è una persona maleducata, è un pirata della strada, etc.).

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Si possono trasformare le critiche in risorse? – ultima parte

Più stupido lo stupido o chi dice stupido allo stupido?

Al di là del fatto che esista o meno una vera intelligenza misurabile con test non influenzati culturalmente (provate a stabilire quanto è intelligente l’indigeno che non ha risposto alle domande di un test e quanto è “stupido” uno studente dotato di 160 di Q.I. nel districarsi e sopravvivere in una foresta sperduta nel mondo), anche grazie agli studi neurofisiologici sulla plasticità neurale non si potrebbe affatto sostenere che l’intelligenza sia totalmente innata. Piuttosto, più si pratica una materia o disciplina, e più la si impara, e più l’impressione degli osservatori è che noi siamo molto intelligenti e abili, o dotati, mentre le rappresentazioni neurali e le sinapsi relative si incrementano. Quindi sarebbe più plausibile l’affermazione che siamo tutti intelligenti in quello che sappiamo fare meglio, più di altri che lo fanno male, e meno di quelli che sanno fare qualcosa che a noi non riesce, ma solo in quella cosa.

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Si possono trasformare le critiche in risorse?

Il giudizio e le critiche.

 

“La tendenza a giudicare gli altri è il più grande ostacolo alla comprensione e all’ascolto”.

Carl Rogers, psicologo.

 

Critiche: funzioni negative e positive.

Dietro alla parola “giudicare” usata da Rogers parrebbe esserci una connotazione negativa, forse riferendosi l’autore alle critiche improduttive, al puntare il dito su difetti e differenze. Potremmo però anche rilevare delle situazioni in cui c’è una sfumatura semantica positiva nella parola: il giudizio in quei casi potrebbe essere una valutazione in senso lato e, perché no, anche positivo.

Anche se la connotazione del giudizio fosse negativa, però, non è detto che non se ne possa guadagnare qualcosa. Di per sé la critica verso l’altro è una strategia comunicativa fallimentare, come hanno indicato a inizio ‘900 il formatore Dale Carnegie e ai giorni nostri lo psicoterapeuta Giorgio Nardone nel libro “Correggimi se sbaglio”, al di là dei possibili intenti “positivi” che possono motivare tale azione. Questo perché criticare l’altro lo può ferire o mettere sulla difensiva, suscitare risentimento e far chiudere in lui il canale dell’ascolto, nonché guastare la relazione almeno in un certo momento o situazione.

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